lunedì 19 marzo 2012
di Prof. Charles W. Stang | Trad. di Giuliana Scalera - in Testi
(19 marzo 2012)
In uno studio divulgativo, Mysticism (1911), Evelyn Underhill definisce il misticismo “esperienza nella sua forma più intensa”. Le mistiche scrivono – suggerisce la U. – perché “spesso sono anche artiste letterarie” abili nel rivestire la loro intensa esperienza in un linguaggio simbolico in maniera da “risvegliare il nostro io più profondo dal suo sonno”. Secondo questa prospettiva, la scrittura mistica è un resoconto esperienziale che i mistici ci danno da leggere nella speranza che la pratica di lettura risveglierà in noi il desiderio e forse anche la capacità di godere, come loro, della stessa esperienza. La Scriptio serve da Lectio, la quale a sua volta serve da Experientia. Non c’è dubbio che ciò sia in parte vero. I mistici hanno lasciato descrizioni – spesso opache e indirette – delle loro visioni e dei loro incontri col divino.
Eppure questa impostazione ha almeno due difetti.
1. Primo, definire il misticismo come la ricezione di un certo tipo d’intensa esperienza è discutibile, quasi che il misticismo fosse semplicemente l’accumulo di “esperienze straordinarie” episodiche, delimitate e descritte comunque in maniera povera.
2. Secondo, non è corretto da un punto di vista storico suggerire che la scrittura mistica sia solo una specie di forma utilizzata per trasferire un certo contenuto esperienziale .
Vorrei invece suggerire che la scrittura mistica può servire come esercizio spirituale diretto a sollecitare un incontro col mistero di Dio. Bernard McGinn insiste sul fatto “che il misticismo è sempre un processo o un modo di vivere” e che “ogni cosa che prepara e innalza all’incontro [tra Dio e l’umano]… è anche mistica”. Mentre nella tesi della Underhill la scrittura è a traino dell’incontro mistico, McGinn suggerisce che la scrittura faccia parte della vita devozionale del mistico e quindi prepara e invita a questo evento. La sua breve descrizione del misticismo quale “modo di vivere” richiama la definizione di Pierre Hadot della filosofia antica come un programma di “esercizi spirituali” che avevano per obiettivo portare il filosofo in sintonia con la realtà ultima.
Così, per Hadot, se la scrittura filosofica ha lo scopo di comunicare con gli altri – leggere è un altro importante esercizio spirituale – scrivere serve anche (e forse soprattutto) a rendere lo scrittore se stesso. Suggerisco di seguire l’allusione di McGinn a Hadot e affrontare la scrittura mistica come un esercizio spirituale, una askesis attraverso cui lo scrittore costruisce se stesso per un incontro con Dio. Alla domanda “perché scrivono i mistici?”, risponderei che scrivono per diventare mistici.
Nelle pagine che seguono, fornisco un breve profilo degli itinerari della scriptio mistica nell’Occidente e nell’Oriente cristiani.
Per l'itinerario orientale, comincio da Filone, analizzo Giovanni Crisostomo e lo Pseudo-Dionigi, e concludo spostandomi, oltre il mondo greco, verso uno scrittore mistico della Siria orientale dal nome Giovanni di Dalyatha. L’itinerario orientale è prevalentemente tardo-antico.
Per quello occidentale, invece, benché cominci da Agostino, ci troviamo rapidamente proiettati nel periodo medievale con la formazione certosina fino alla pratica della scriptio divina della mistica Margherita d’Oingt del sec. XIII.
L’itinerario orientale
Il primo mistico che esamineremo è Filone di Alessandria, il che potrà sembrare strano al lettore, perché non si tratta di un cristiano ma di un giudeo ellenizzato del primo secolo. Ciononostante Filone esercita, con Plotino, un’enorme influenza sulla tradizione mistica cristiana. Una delle sue più famose descrizioni dell’incontro mistico si trova nel Quis rerum divinarum heres. Questo trattato è una lettura allegorica di Genesi 15:2-18, in cui Abramo, che non è ancora Abraham, lamenta la mancanza di un erede, e Dio gli promette che la sua discendenza sarà come le stelle nel cielo: Filone, tuttavia, interpreta allegoricamente il lamento di Abramo, come se Abramo parlasse a nome di chiunque voglia ereditare le cose divine:
“Chi sarà l'erede? Non certo il pensiero che scientemente rimane prigioniero nel carcere del corpo; ma quello che, rotte le catene e fattosi libero, è uscito fuori dalle mura della prigione – per così dire – ha abbandonato se stesso”.
Giocando sul significato di erede come colui che viene fuori dai genitori, Filone insiste che solo chi viene fuori da se stesso può ereditare le cose divine. Filone trasforma l’eredità divina in un ascetismo estatico esemplificato dalle parole di Abramo:
“Se dunque, o anima, desideri ereditare i beni divini, abbandona non soltanto la terra,
che è il corpo, la parentela, che sono i sensi, la casa paterna, che è il linguaggio, ma fuggi
anche te stessa ed esci fuori da te. Come i coribanti e i posseduti, riempiti di ispirata follia,
come sono ispirati anche i profeti”.
Questo passo inizia con la lettura allegorica di Genesi 12:1, nel quale Dio dice ad Abramo: “vattene dalla tua casa, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre verso la terra che io ti mostrerò”. Filone legge terra, parenti e casa, come, corpo, sensi e ragione; e il comando di Dio “lasciali!” come un imperativo ad abbracciare l’askesis estatica. L’estasi fa la sua apparizione più tardi nel trattato, quando Filone spiega Genesi 15:12, “Mentre il sole andava giù, una grande estasi prese Abramo; paura e grande oscurità caddero su di lui”.
La richiesta di Dio permette a Filone di distinguere quattro tipi di estasi :
1. “un furore delirante” prodotto da cause naturali;
2. “uno sbalordimento estremo dinanzi ad avvenimenti improvvisi e inattesi”;
3. “la passività della mente”, se la mente può mai essere completamente a riposo;
4. “la migliore forma è la possessione divina o mania, a cui sono soggetti i profeti”.
Ovviamente Filone è più interessato al quarto tipo, e spiega che il tramonto del sole in Genesi 15:12 si riferisce al tramonto della facoltà razionale di Abramo e al sorgere della luce divina. La facoltà razionale è raffigurata come il sole a mezzogiorno, quando tutto è illuminato e noi siamo interamente noi stessi, in noi stessi. Quando questo sole tramonta, “cadono il terrore e la grande oscurità”. Quest’oscurità è la travolgente luce del divino, della quale facciamo esperienza come buio perché siamo abituati alla luce più debole della nostra natura, vale a dire la ragione. Con l’oscurità cade “l’estasi e la divina possessione e pazzia” e lo “spirito divino” forza lo sradicamento non solo della ragione ma anche della mente (nous). L’entusiasmo per l’estasi come divina possessione trova un’eco interessante in un altro lavoro di Filone su Abramo, ora Abraham, un lavoro che direttamente si rivolge alla nostra comprensione della scrittura come esercizio spirituale finalizzato all’impresa mistica. Nel De Migratione Abrahami, Filone riflette sulla propria vita di scrittore, confessando come anche lui abbia sofferto la frustrazione di cui soffrono tutti gli scrittori. Ma confessa anche che:
“[in] altre occasioni, ho sperimentato [la mia scrittura] vuota divenire improvvisamente piena, mentre le idee cadevano come pioggia dall’alto in una semina invisibile, sicché, sotto l’influenza della possessione divina, sono stato riempito di follia coribantica, inconsapevole [agnoein] di ogni cosa, del luogo, delle persone presenti, di me stesso, delle parole pronunciate, delle righe scritte. Poiché ho ottenuto linguaggio, idee, godimento di luce, visione più acuta, limpida distinzione di oggetti, quasi li avessi ricevuti attraverso gli occhi come risultato della più chiara delle dimostrazioni”.
Se mettiamo a confronto la descrizione della possessione divina sperimentata da Filone mentre scrive con quella dell’estasi di Abramo nel Quis rerum divinarum heres, sembra quasi che Filone confessi di aver subìto, tramite la pratica della scrittura, un incontro mistico con Dio, uno sradicamento da se stesso da parte del divino. Esattamente come nel Quis rerum divinarum heres? parlava di sé successivi – il divino subentrando all'umano – nella Migrazione descrive soggettività successive, la kenotica e l'assoluta. Filone dice di aver patito questo passaggio dal vuoto al pieno “improvvisamente” – un avverbio che per un giudeo platonico suggerisce una varietà di connessioni, bibliche e platoniche, tutte associate alla manifestazione di Dio. Ma ciò che per noi è più interessante non è che Filone abbia sperimentato il genere di estasi mistica che di solito riserva ai profeti, ma che ciò sia avvenuto mentre scriveva.
Giovanni Crisostomo
Un biografo di Crisostomo del VII secolo riporta un incontro miracoloso tra l’apostolo Paolo e Giovanni, il suo ammiratore di Antiochia. Secondo questo racconto, Crisostomo, a Costantinopoli, aveva sulla parete della sua stanza un ritratto di Paolo a cui parlava come se fosse vivo, spesso ponendogli questioni esegetiche. Una notte il suo segretario, Proclo, intravide attraverso la porta Crisostomo duramente a lavoro su un’omelia relativa a una lettera di Paolo. Egli vide alle spalle di Giovanni un uomo in piedi, che gli suggeriva all’orecchio ciò che scriveva. Crisostomo sembrava inconsapevole del visitatore e solo più tardi il suo segretario realizzò che l’uomo che aveva visto era lo stesso del ritratto, cioè Paolo: “l’uomo che vidi parlare con te sembrava proprio quest’uomo. In realtà penso che lo fosse”. Questa leggenda produsse a Bisanzio una ricca tradizione iconografica, della quale forse la più stupefacente [testimonianza] è un manoscritto medievale illustrato in cui il corpo di Crisostomo seduto e quello di Paolo in piedi dietro di lui formano una singola lettera, la kappa, da cui inizia una nuova frase.
Questa leggenda, insieme alle osservazioni di Crisostomo circa la propria pratica di scrittura, è importante per la nostra dimostrazione. Secondo la leggenda e secondo le stesse parole di Crisostomo, egli era in grado, attraverso la scrittura, di richiamare Paolo nel presente, tanto che le loro voci come autori, e spesso persino i loro corpi, furono così intrecciati che era difficile differenziarli.
Attraverso le sue omelie su Paolo, Giovanni cerca letteralmente di evocare l’apostolo nel presente: privatamente attraverso la scrittura e la lettura devozionale, pubblicamente attraverso la predicazione. Nei suoi studi sulle omelie, M. Mitchell giustamente caratterizza l’omiletica di Giovanni come un “arte intrinsecamente negromantica”. Inoltre, paragona il suo sforzo di evocare Paolo a una specie “di viaggio nel tempo”: “non il suo viaggio a ritroso nel tempo ma il movimento di Paolo in avanti […] crea l’incontro di Crisostomo con il Paolo che conosce”. Crisostomo confessa che spesso fu distolto dal proprio lavoro da Paolo che “si impossessò” di lui:
“Perché mi angustio? Facendo appello a tutte le mie forze, devo fuggire, per paura che ancora una volta Paolo, impadronendosi di me, possa strapparmi al testo che ho pronto per la predica. Poiché sai bene come altre volte ripetutamente, incontrandomi mentre preparavo il sermone, egli si sia impadronito di me ed io abbia lasciato il sermone a metà. Così tanto mi ha posseduto da persuadermi a lasciar naufragare il sermone”.
In un paio di omelie sulle epistole agli efesini, Crisostomo confessa di “non poter opporre resistenza” a una tale possessione. Egli invita il suo uditorio a essere ugualmente posseduto: “Che cosa mi accade? Vorrei tacere, ma non ne sono capace”. Egli suggerisce che la catena che una volta legò Paolo in prigione, l’apostolo ora la usa per legare lui: “la catena di Paolo è diventata molto lunga, e ci tiene legati strettamente […] Questa catena solleva coloro che sono stati legati al cielo, come se fosse una gru. Proprio come una corda d’oro assicurata a un punto, la catena di Paolo li alza verso il cielo”. Malgrado la confusione e la conseguente perdita di controllo sulla sua stessa voce, Crisostomo considera questi episodi analoghi, come se Paolo rendesse possibile la sua ascesa al cielo. Riflettendo sulle descrizione di questi episodi, la Mitchell rileva: “Nell’interpretazione di Paolo fatta da Crisostomo, le identità, le personalità e le voci dei due uomini, come i loro visi nella miniatura, si uniformano l’una all’altra. Così nel discorso di Crisostomo su Paolo abbiamo il complesso intrecciarsi di due persone, di due io, di Paolo e di Crisostomo”. Questo intrecciarsi è il vero obiettivo del suo viaggio negromantico nel tempo. Da un altro punto di vista, Crisostomo comprende se stesso seguendo la strada dell’imitazione di Paolo (imitatio Pauli).
Il mandato a imitare Paolo viene dall’apostolo, che in diversi luoghi esorta i suoi lettori: “divenite miei imitatori” (1 Cor 4:16, 11:1; Gal 4:12). Paolo, comunque, insiste che lui serve solo come un mezzo per un fine – nelle parole della Mitchell, come un “intermediario mimetico”, perché la sua esortazione “divenite miei imitatori” è associata al monito “proprio come io lo sono di Cristo” (1 Cor. 11:1). Per Crisostomo, l’imitazione di Cristo (imitatio Christi) di Paolo si fonda sulla sua confessione: “non sono più io, ma è Cristo che vive in me” (Gal. 2:20). Il fatto che Cristo irrompa nell’io di Paolo garantisce la catena dell’imitatio Christi, garantisce che ciò che noi imitiamo in Paolo è Cristo. Secondo la Mitchell, è l’“infusione di Cristo” che rende Paolo degno di tale imitazione. Le pratiche letterarie alle quali Giovanni Crisostomo si vota lo rendono simile a Cristo attraverso Paolo, a tal punto che egli è intrecciato con l’apostolo come l’apostolo confessa di esserlo stato con Cristo.
Il lettore potrebbe chiedersi che cosa abbia a che vedere tutto ciò con la scrittura e col misticismo cristiano. Se B. McGinn ha ragione quando dice che il misticismo è “un tentativo di esprimere la coscienza diretta della presenza di Dio”, gli sforzi di Crisostomo non dovrebbero essere annoverati come mistici. Dopotutto, il suo incontro con Dio (come Cristo) è ineluttabilmente indiretto, cioè, mediato – mediato attraverso l’apostolo Paolo.
Al contrario, vorrei suggerire che l’esempio di Crisostomo serve a ricordarci che molti mistici cristiani incontrano il mistero di Dio indirettamente, attraverso gli apostoli, i santi, o gli uomini e le donne sante a loro contemporanei. Crisostomo sta cercando di sollecitare, attraverso Paolo, la stessa mistica “fusione cristica” che confessa l’apostolo, in un passo famoso (Gal. 2:20). Più vicino ai nostri fini è il fatto che Crisostomo cerchi questa mistica infusione di Cristo attraverso la pratica della lettura e, in più punti, della scrittura. La sua penna chiama l’infusione-di-Paolo e con essa l’infusione-di-Cristo.
Lo “Pseudo” Dionigi l’Areopagita
All’inizio del VI secolo iniziò a circolare in Siria una raccolta di scritti presumibilmente posti sotto il nome di Dionigi Areopagita, il colto giudice pagano che si dice che Paolo avesse convertito con il famoso discorso all’Areopago di Atene (Atti 17). Dico che questi testi erano “presumibilmente posti sotto il nome” di Dionigi piuttosto che “attribuiti” a lui, perché l’autore assume letteralmente l’identità di questo famoso discepolo di Paolo, scrivendo al suo discepolo Timoteo, assistendo alla dormizione di Maria, e consigliando Giovanni l’evangelista in esilio a Patmos. Verso la fine del XIX secolo, due studiosi tedeschi dimostrarono definitivamente che l’autore della raccolta non era l’Ateniese del I secolo, ma un autore della fine del V o dell’inizio del VI secolo, uno pseudepigrafista pesantemente in debito col Neoplatonismo, e specialmente con il filosofo Proclo del V secolo.
Gli studiosi sono divisi se è meglio interpretare il Corpus dionisiano sullo sfondo del Neoplatonismo o su quello delle tradizioni del Cristianesimo Orientale del tardo-antico. Ma sono uniti, tuttavia, nel ritenere che esso sia uno dei testi più influenti della storia del misticismo cristiano, e che il suo lungo influsso fu dovuto al presunto pedegree apostolico. Il corpus esorta i propri lettori a seguire uno stringente regime contemplativo nel quale “si dice” (kataphasis) e “non si dice” (apophasis) in perpetuo i nomi divini, nella speranza di sollecitare un incontro deificante con un Dio ineffabile assolutamente trascendente, non diverso dal “Dio ignoto” che Paolo proclama ad Atene. Scioccando molti lettori moderni, questa impresa mistica è incorporata in un sistema gerarchico ecclesiastico elaboratamente articolato (che è esso stesso un riflesso della celeste gerarchia) con una sua complementare economia di deificazione dove la moneta corrente è la luce deificante di Cristo.
Per l’importanza conferita alla trascendenza divina e alla conseguente necessità di “non dire”, ossia di una negazione perpetua, il Corpus dionisiano è considerato generalmente all’origine della “via negativa” del misticismo cristiano – chiamata anche teologia “negativa” o “apofatica.”
Lo pseudonimo, Dionigi Areopagita, e la corrispondente influenza di Paolo, costituiscono insieme le migliori lenti interpretative per comprendere il Corpus dionisiano e il suo autore. Tuttavia è cruciale realizzare, prima, che l’impresa mistica del Corpus dionisiano ha una dimensione antropologica. In breve, "non-dire" i nomi di Dio richiede "non-dire" l'io umano e le sue facoltà; subire l'unione con il "Dio ignoto" richiede che noi diventiamo sconosciuti a noi stessi e quindi aperti al Dio che è altro da ciò che siamo.
Per Dionigi, l'amore è lo strumento per questa apophasis del sé. Eros è l'amore che ci estende al punto di scinderci e fare spazio alla discesa di quel Dio ignoto che si riceve nella deificante luce di Cristo. Non c’è da sorprendersi che Paolo sia qui il modello esemplare, perché Paolo è "il grande amante ", un estatico (2 Cor 5:13) che svuota se stesso per fare posto a Cristo (Gal 2,20) 0,24. L'altro modello è Mosè, che sulla cima del Sinai, avvolto nel "buio della non-conoscenza [. . .] appartiene completamente a colui che è al di là di tutto [. . .] non essendo né [interamente se stesso] né qualcun altro". In entrambi i casi, vi è un’antropologia mistica negativa in cui l'umano non è annichilito dall’infusione del divino, ma duplicato: contemporaneamente sé e altro.
La questione è se questa antropologia mistica ci fornisca qualche luce sullo scrivere come esercizio spirituale. Io sospetto che la decisione dell'autore di scrivere sotto pseudonimo possa accordarsi con l’impresa mistica presentata nell’opera, e perfino contribuire ad essa. [cors. del trad.]
Non diversamente da Crisostomo, l'autore è impegnato in una sorta di viaggio nel tempo, ma mentre Crisostomo evoca Paolo nel presente, lui si proietta all’indietro nel cuore dell'apostolo, assumendo l'identità del suo discepolo, Dionigi Areopagita.
Diventando un imitatore di Dionigi, che a sua volta era un imitatore di Paolo infuso-da-Cristo, anche questo autore scrive se stesso alla presenza del divino. Ma l’identificazione con il Dionigi Areopagita storico non è perfetta. Egli sfrontatamente prende in prestito da Proclo e occasionalmente sconfina nelle contemporanee controversie cristologiche. L'autore che scrive sotto pseudonimo non è "se stesso né qualcun altro," neppure il siriano del VI secolo che presumiamo che fosse o l’ateniese del I sec. di cui assume l'identità. La sua pratica di scrivere sotto pseudonimo lo rende due in uno. Sotto questo aspetto, la sua scrittura è in perfetta sintonia con la sua antropologia apofatica: scrivere sotto un nome falso, in cui non si è del tutto se stessi, né qualcun altro, solo perché si è sia se stessi che qualcun altro, diventa per questo autore una pratica erotica ed estatica al servizio della rottura dell'integrità dell’io individuale [cors. del trad.], “non dicendo” l’io singolare e sollecitando l’unione deificante con il dio ignoto. Se ciò è corretto, la scrittura come pratica spirituale al servizio del misticismo presiede all'inaugurazione della tradizione negativa o apofatica all'interno delle teologie mistiche cristiane.
Questa indagine dell'itinerario orientale sarebbe incompleta senza almeno un ulteriore sguardo, al di là del mondo greco, più ad Est verso le comunità cristiane di lingua siriaca. E lì che troviamo Giovanni di Dalyatha, un teologo mistico della Siria orientale (o "nestoriano") dell’VIII secolo, proveniente dai monasteri della Mesopotamia. In una delle sue lettere ai "solitari", confessa:
“La penna brucia per la forza del tuo fuoco, o Gesù, e la mia mano destra ha smesso di scrivere; i miei occhi sono bruciati dai raggi della tua bellezza. Il terreno su cui ho camminato finora si è trasformato dinanzi a me. La mia intelligenza è stupefatta per la meraviglia che Tu provochi e da questo momento io apprendo me stesso come non esistente. “
Nella tradizione siriaco-orientale, il fuoco rappresenta spesso il ripristino battesimale dell’abito di luce o "veste di gloria" persa nella Caduta. Per Dionigi, tuttavia, il fuoco è anche la luce deificante di Cristo, che esperita per la prima volta nel battesimo, può scendere all'improvviso, come avvenne per Paolo e come accade qui per Giovanni di Dalyatha, in uno straordinario bagliore. Giovanni è consumato da questo fuoco deificante che "brucia" i sensi e l’ intelligenza e letteralmente lo rende nulla.
La cosa più interessante è che la conoscenza paradossale della propria non-esistenza la riceve mentre scrive. Anche se dice che la sua mano ha smesso di scrivere, sappiamo che alla fine riprende la penna per comporre questa lettera. Inoltre, la conoscenza della sua non-esistenza persiste al di là di questo evento straordinario ("d'ora in poi io mi conosco come non esistente").
Anche qui è possibile scorgere il fitto intreccio di unione mistica, antropologia negativa e scrittura come esercizio spirituale.
L’itinerario occidentale
Agostino di Ippona
Sul linguaggio e sulle sue manchevolezze, sulle pratiche spirituali di leggere e scrivere, Agostino ha da dire più di tutti gli altri Padri latini. All’inizio delle Confessioni, Agostino dedica la sua scrittura al servizio di Dio. Apprendiamo più tardi che i libri che scrisse a Cassiciacum "ormai erano stati effettivamente scritti al Tuo servizio". Ma come ha fatto Agostino a capire che la sua scrittura era al servizio di Dio? Verso la fine delle Confessioni c’è una risposta almeno a questa domanda:
“Perché dunque ti sottopongo un racconto ordinato di così tante cose? Non è certo
attraverso di me che tu le conosci. Piuttosto, sto risvegliando in me e in chi li leggerà
l'amore verso la Tua persona. Tutti dovremo dire: ‘Grande è il Signore e ben degno
di lode’”. (Confessioni XI. 1.1).
Scrivere le Confessioni è per Agostino un mezzo per risvegliare prima se stesso, poi l'amore (affectus) dei suoi lettori per Dio. Nel suo celebre racconto della visione di Ostia – spesso interpretata come la descrizione di un incontro mistico – Agostino osserva che la sua mente e quella di sua madre "erano state sollevate da un ardente affetto [ardentiore affectu] verso l’essere eterno stesso."
Se la scrittura suscita il nostro amore per Dio, e l'amore è ciò che ci solleva fino a "toccare" (attingere) l’essere eterno, anche Agostino potrebbe aver maturato una certa comprensione della scriptio mistica già nelle Confessioni.
I Certosini
Attingendo alle riflessioni sull'arte scrittoria di figure come Cassiodoro (ca. 485-ca. 585) e Isidoro di Siviglia (ca. 560-636), nel tardo XI secolo e nel XII gli architetti dell'ordine certosino forniscono un esempio cruciale del ruolo della lettura e della scrittura come centro della vita devozionale dei monaci.
Mentre i Benedettini insistevano sul fatto che Dio si incontrava nella vita comunitaria dei monaci, in particolare nel Servizio Divino, i Certosini sostenevano la spiritualità della cella e celebravano la solitudine e il silenzio.
Non c’è da sorprendersi che lettura e scrittura (nello specifico, la trascrizione degli scribi) siano gli esercizi spirituali tipicamente certosini. Come il priore certosino Guigo I (1083-1136) osserva, riecheggiando Agostino sull’affectus:
"Tanti libri scriviamo, altrettanti araldi della verità ci sembra di produrre, sperando in una ricompensa da parte del Signore per tutti coloro [. ..] che saranno stati infiammati dal desiderio [desiderium ad] del paese celeste.”
Il valore che i certosini attribuiscono alla scrittura – che Stephanie Paulsell chiama "scriptio divina" – arriva a compimento nei secoli XII e XIII tra un gruppo di mistiche, che applicano la concezione della scrittura come pratica devozionale non solo alla trascrizione scrittoria ma anche ai testi di cui sono autrici.
Margherita di Oingt
L'esempio più notevole tra i tre indagati dalla Paulsell è forse quello meno noto. Margherita di Oingt (m. 1310), anche se meno famosa della visionaria Hildegarda di Bingen (1098-1179) o della beghina condannata Margherita Porete (m. 1310), offre una delle più chiare articolazioni della scriptio divina nell’Occidente latino. Margherita eredita la “scala dei monaci” di Guigo II (d.1193) in cui il solitario ascende a Dio per mezzo di quattro gradini: lectio, meditatio, oratio e contemplatio. Al gradino più alto, la contemplatio.
Margherita confessa che una notte fu
“elevata verso Nostro Signore”, e che “quando ritornò in sé, aveva tutte quelle cose scritte nel suo cuore, in modo da non poter pensare ad altro, e il suo cuore era così pieno da impedirle di mangiare, bere o dormire, finché raggiunse un tale stato di debolezza che i medici la giudicarono prossima alla morte”.
In questo incontro, riecheggiando Geremia 31, Margherita diventa il luogo della scriptio divina, il suo cuore diventa la superficie su cui Dio scrive. Ella risponde trascrivendo il testo divino, assumendo quindi la scrittura creativa di Dio come un modello per la propria. Non solo la scrittura elimina la pienezza che la stava uccidendo, ma, anche con l'aggiunta di un nuovo gradino, la scriptio, Margherita trasforma la scala ascendente di Guigo in un cerchio o in una spirale decidendo di leggere e meditare sul proprio testo.
Finalmente, e paradossalmente, trascrivendo il testo divino inscritto nel suo cuore, Margherita elimina Dio e, così salvata dal senso soffocante della sua presenza, sperimenta la grazia che opera in lei. Come ella stessa spiega, un po’ sulla difensiva, in una sua pagina delle Meditazioni :
“devi considerare che io non possiedo né la conoscenza né il ministero sacerdotale attraverso cui potrei sapere come trarre queste cose dal mio cuore, o scrivere senza un’altra copia [davanti a me], a meno che non fosse stata la grazia di Dio ad operare in me”. [Les Oeuvres de Marguerite d’Oingt (Paris: Societé d’édition “Les Belles Lettres”, 1965), p.72.]
Per Margherita, la scriptio divina la porta più vicina a Dio, ma in modo tale da vivere nella sua prossimità, piuttosto che essere estinta da Lui. La Scriptio divina è per lei una disciplina con la quale il mistico può negoziare la prepotente presenza del divino, non solo alleviando la pressione di tale presenza, ma anche rispondendo creativamente ad essa.
Come Paulsell conclude, “per Margherita, la scrittura di Dio la conduce alla sua stessa scrittura, e la sua stessa scrittura la riporta sempre, di rimando, a Dio. La vita spirituale e la vita creativa per lei sono una cosa sola”.